Motore di ricerca

21 maggio 2007

L'Italia Multinazionale vende il made in italy

Nella pianificazione delle politiche economiche dei governi e delle istituzioni sovranazionali sta emergendo una forte tendenza alla globalizzazione che rischia di colpire e di danneggiare il made in Italy. Una constatazione che deriva non solo dall'atteggiamento dei nostri governi dinanzi ai tentativi di incursione del mercato nazionale e di appropriazione dei marchi italiani, ma anche dalla visione del marchio italiano da parte degli investitori esteri.

I marchi del "made in italy" oggi sono sinonimo di un prodotto con alto rapporto prezzo-qualità, rafforzato dal prestigio e dalla esclusività dei processi produttivi, tuttavia vengono allo stesso tempo messi in discussione e continuamente attaccati con tentativi di delegittimazione del "marchio" o di contraffazione. Il mercato del falso "made in italy" è oggi il nuovo business in cui molte società hanno investito nel tempo, anche multinazionali o diretti concorrenti, in quanto ha consentito pian piano di sabotare il marchio del prodotto italiano, e mettere così in discussione il mondo del "made in italy". È stata infatti la contraffazione, controllata e ben studiata dalle multinazionali, a rendere necessario i controlli e le etichette per certificare la provenienza del prodotto italiano. Il risultato, per quanto paradossale possa sembrare, rischia di nuocere il "made in italy" stesso, con la pretesa di difenderlo, andando a privare di tale denominazione le società italiane che sono state acquistate dalle multinazionali e che, per questo motivo, hanno impostato la loro produzione secondo delle logiche della globalizzazione. La nuova normativa europea sulla etichettatura degli alimenti potrebbe infatti compromettere il marchio "made in italy" per la produzione dell'olio extravergine, o dei prodotti conservieri, o degli stessi formaggi italiani. È ciò che si può constatare dalle analisi dei media internazionali, che fanno elegantemente notare che, una volta introdotta la normativa europea dell'etichettatura dei prodotti, si potrebbe arrivare a scoprire che solo il 30% dell'olio venduto come Made in Italy, è in realtà proveniente da coltivazioni italiane. L'attuale normativa permette che ciò accada in quanto si afferma che l'olio subisce in Italia un processo di raffinazione della materia prima e dunque di successiva lavorazione che consente di conservare questa denominazione. Se tuttavia, le norme europee imporranno la semplice dichiarazione della provenienza della produzione, la sola lavorazione successiva della materia prima non basterà a far conservare a quel prodotto il prestigio che deriva dal made in italy. In nuovo rapporto, infatti, pubblicato dal Ministro dell'Agricoltura Paolo De Castro precisa infatti che le etichette devono dichiarare il paese in cui sono stati coltivati gli ulivi e dove è avvenuta la spremitura, indicando così i vari paesi di origine delle miscele. Si riuscirebbe a cautelare in un certo senso le piccole imprese artigianali, ma non i marchi italiani che, sono stati nel tempo acquistati dalle multinazionali, come la Bertolli, di proprietà della Unilever, Carapelli, Cirio e altre che si vedrebbero tolta la denominazione di made in italy, per essere così inglobati in maniera totale nei meccanismi della burocrazia. Lo stesso discorso si può per analogia traslare su altri prodotti attualmente definiti italiani, come la salsa di pomodoro, prodotta dalla trasformazione di pomodori per lo più importati, la mozzarella, anch'essa ottenuta spesso da paste di importazione, il vino, il miele, la pasta. Così facendo, sebbene si andrà a colpire quelle società che abusano di tale denominazione, si danneggerà anche l'universo del made in italy, se la produzione di alcuni prodotti italiani perderà il suo marchio storico. Questo accadrà perché il concetto stesso di made in Italy non è ben concepito ed elaborato e viene spesso interpretato in maniera molto stretta: esso invece rappresenta la ricchezza stessa dell'Italia, è il motore del PIL e dell'economia dell'esportazione. Tale aspetto non viene spesso dovutamente considerato e incentivato dal governo e dall'Istituzioni che preferiscono invece puntare su quella che amano definire "l'Italia Multinazionale", ossia un'Italia che si apre agli investitori esteri e di avventura in investimenti diretti esteri. Dall'ultimo rapporto del Ministero del Commercio Internazionale, presentato dall'On. Bonino e dal Pres. dell'ICE Vattani, emerge un quadro dell'Italia internazionalizzata molto sacrificato, che mostra un'economia protezionistica e non promotrice delle partecipazioni estere mediante delocalizzazioni, una Italia in difficoltà nel produrre investimenti netti all'estero e nel attrarre investimenti dall'estero. La Bonino teme per esempio che l'Italia venga marginalizzata nel processo di riallocazione della produzione di beni e servizi sui mercati esteri, e per tale motivo occorre passare da un modello di promozione meramente commerciale ad un modello che favorisca la presenza stabile e l'integrazione sui mercati internazionali. In base a tali problemi il Governo afferma che si impegnerà maggiormente sulle politiche di attrattività degli investimenti diretti esteri sul territorio italiano con maggiori liberalizzazioni, per l'insediamento stabile degli investitori, e per fare dell'Italia una vera piattaforma di riferimento per le aree dinamiche del Medio Oriente e dell'Asia. Le liberalizzazioni diventano così quel motore che consentirebbe di far entrare investimenti e capitali in Italia, per essere poi riciclati e rigirati per la produzione di ricchezza all'esterno, con un'internazionalizzata che non si basi tanto sulle piccole e medie imprese, che di muovono solo con la rete e il distretto, ma sulle grandi società. In realtà il made in italy non è oggi nelle mani delle società italiane divenute multinazionali, ma è nelle mani delle piccole imprese, dei distretti, delle reti di aziende, che hanno ottimizzato i loro processi e producono il vero prodotto italiano. La ricchezza del settore della moda, non è nel marchio e nella griffe, ma è nella filiera di qualità, di produzione e di ricerca del settore tessile italiano. Allo stesso modo il settore delle calzature, ha il suo motore nei distretti conciari e artigianali che servono poi le grandi marche. Su di loro occorre investire, e su di loro che può basarsi lo sviluppo del made in italy, e non sui grandi marchi ormai globalizzati e privati di quella che è la italianità della produzione.