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03 ottobre 2013

La Stalingrado di Fule

Roma - Si è consumata ieri a Bruxelles la Stalingrado di Stefan Fule. Lo staff della Commissione per l'Allargamento hanno potuto toccare con mano la complessa realtà balcanica, che continua ad essere perfettamente descritta dalla frase di Ivo Andric: "Dove finisce la logica, lì inizia la Bosnia". Il confronto tra i leader politici della Bosnia e i tecnocrati europei sulla riforma costituzionale della Bosnia, e la sua armonizzazione alla sentenza della Corte Europea, è stato molto acceso, con attimi di confusione e panico, tanto che si temeva il ripetersi dello scenario di Butmir. Allora, la conferenza organizzata sotto l'egida degli Stati Uniti, avrebbe dovuto concludersi con la ratifica della 'nuova Costituzione' della Bosnia, ossia una serie di documenti che i rispettivi leader politici avevano ricevuto per conoscenza solo pochi giorni prima. Messi dinanzi a fatto compiuto, i rappresentanti bosniaci si sono rifiutati di apporre una firma 'in bianco', e a nulla sono valse le minacce di isolamento e di taglio dei fondi. I funzionari della Comunità internazionale hanno perso la calma, e l'ambasciatore americano non ha retto all'urto: è svenuto ed è stato trasferito d'urgenza in barella. 

Fule ha avuto una sorte diversa, non è svenuto, ma si è dovuto scontrare con la dura realtà del fallimento diplomatico, perdendo così l'occasione di passare alla storia come l'uomo che ha messo d'accordo i bosniaci, il "Tito europeo". Ha cercato di esercitare delle pressioni, utilizzando la leva del taglio dei fondi IPA e di ogni altra agevolazione finanziaria, ottenendo di contro un secco rifiuto, vista l'inconciliabile incompatibilità di ciascuno dei leader sulla riforma Sejdic-Finci. Dopo la pausa pranzo, i toni sono rientrati nella normalità, congelando per il momento le sanzioni e pattuendo un accordo di "principio" ma non sulla carta, da discutere in colloqui separati i prossimi dieci giorni. In teoria una 'soluzione geniale', nella pratica un 'nulla di fatto', che rinvia ormai per inerzia un processo di riforma che non può avvenire, senza mettere in discussione gli stessi principi del Dayton. Un rebus da cui non si può uscire con i tecnicismi, bensì solo con un compromesso politico storico. E' evidente che l'adesione all'Europa non è tra quelle prospettive che riescono a motivare questo Paese, al punto tale da rinunciare alle rispettive revanche. Forse l'Unione stessa non viene vista come istituzione autorevole, in grado di risolvere gli annosi problemi di uno Stato in crisi perenne.

 

La parentesi bosniaca, tuttavia, è solo una parte della cronaca della disfatta. Nel pomeriggio si fa sempre più pressante il 'caso Albania' che ha portato alla luce, tra le altre cose, anche la grave superficialità dei consulenti tecnici europei. Infatti, se prima hanno assecondato gli intenti 'pre-elettoriali' del Partito socialista, che chiedeva di rinviare l'approvazione di una legge che bloccava le "regalie dello scambio di voti", dopo chiude un occhio sulla sua entrata in vigore. Questo dovrebbe saperlo anche l'ambasciatore Sequi, che ha investito così tanto nella 'sensibilizzazione europeista' degli albanesi, partecipando persino allo show del Grande Fratello di Albania, in occasione della 'Settimana europea'. Tanti sforzi, tuttavia, non hanno avuto i risultati sperati, perché la nuova maggioranza sforna un decreto che entra in vigore il 1° ottobre (accontentando le richieste UE) ma diviene applicabile dopo sei mesi (accontentando i militanti di partito). Un dettaglio che, a questo punto, non è sfuggito agli osservatori più attenti, che hanno richiamato i funzionari europei a mantenere imparzialità e rigidità nel rispetto delle regole di armonizzazione. L'imbarazzo è stato così bruciante, che il portavoce Peter Stano, in evidente difficoltà, ha rilasciato una dichiarazione ridicola e insensata, nella quale afferma che sosterrà l'elaborazione dei regolamenti di attuazione, di un atto che - a dire degli esperti - presenta evidenti limiti di incostituzionalità, rinviando poi alla pubblicazione del rapporto di progresso ogni ulteriore dettaglio. 


La CE cade quindi nei tecnicismi, pur di non prendere alcuna posizione in una vicenda di cui è pienamente responsabile. Lo stesso Stano si rifiuta di rispondere alle domande rivolte dall'Osservatorio Italiano, e quindi di dire chiaramente se questa legge, così come scritta, rispetta o meno i termini per la candidatura dell'Albania, e se l'annullamento dei decreti dell'uscente Governo Berisha mette in discussione la certezza del diritto e gli investimenti esteri. Non rispondere a queste domande è ipocrisia, anche perché i cittadini europei devono essere informati sulla sostenibilità di una macchina burocratica che crea tanti sprechi.  Sono milioni e non ben stimati i costi per redigere studi di fattibilità, consulenze e analisi tecnico-giuridiche delle Commissioni Europee: le regole di trasparenza obbligherebbero la pubblicazione dei bilanci e dei rendiconti delle spese, perché questi funzionari restano pur sempre dei 'dipendenti pubblici'.

In nome dei principi civili su cui si fonda l'UE, dovrebbero essere pubblicate le liste dei consulenti e dei professionisti che  prestano la loro opera di assistenza per la preparazione di leggi e interventi, ma anche che partecipano alla preparazione dei progetti per i fondi IPA. Potremmo eventualmente scoprire che i tanto acclamati fondi di integrazione, solo in minima parte giungono al reale beneficiario, perché una quota importante serve a finanziare i contratti di consulenza. Non è questa l'Europa che gli Stati-nazione volevano creare, perché hanno rinunciato alla propria sovranità monetaria nella convinzione che le strutture sovranazionali sarebbero riuscite a superare i clientelismi, le correnti e le inefficienze. Ma a quanto pare l'UE si sta trasformando in qualcosa di peggiore, incapace ed incompetente, persino nel gestire un banale caso di 'aggiramento delle leggi', ignorando poi il rischio derivante dalla cancellazione massiva dei provvedimenti con il cambio del Governo.

I Balcani, nella loro complessità, stanno quindi mettendo in risalto anche i limiti di questo meccanismo tecnocratico, che dopo aver fatto degli errori con Romania e Bulgaria, ha creato distorsioni anche in Croazia: il Governo croato ha approvato negli ultimi mesi, prima dell'adesione ufficiale, più di 1200 decreti, con innumerevoli errori di traduzione e lacune legislative, che ne impediscono nei fatti l'applicazione. Segnali di malessere politico sono emersi anche in Serbia, dove una campagna elettorale demagogica è stata seguita da una epurazione spietata di amministrazione e cancellerie, nonché arresti e allontanamenti, tutto con il benestare, e talvolta su pressione, degli organi di Bruxelles. D'altro canto, l'accordo con il Kosovo è solo un'immagine di marketing diplomatico, per confermare che l'Europa ha portato a termine un processo di pace; resta ora da vedere quante delle promesse fatte saranno portate a termine, visti gli attriti alle prime difficoltà incontrate.  Meno riconoscimenti sono stati dati all'Albania, nonostante il sincero impegno profuso, perché in questo caso Bruxelles ha scelto di partecipare alla retorica politica, invece di fare il proprio lavoro, ossia garantire il rispetto delle regole, qualunque sia il partito al potere.  Si è quindi prestata ad un vile gioco, al punto da minare la credibilità stessa dell'Europa. E' diventata immagine di demagogia, propaganda, prepotenza e arroganza. Questa è la Stalingrado della UE.

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